La difficoltà percettiva del dislessico

Alla radice della dislessia ci sarebbe un deficit in un meccanismo percettivo di base, quello dell’adattamento agli stimoli sensoriali, siano essi suoni o immagini. Il cervello è perfettamente in grado di compensare il deficit di fronte a ciascun singolo tipo di stimolo, ma quando di tratta di coordinarne due differenti – come nel caso della lettura, in cui si collegano immagini e suoni – sorgono delle difficoltà.

Nelle persone che soffrono di dislessia c’è un meccanismo di percezione sensoriale di base che opera in modo meno efficiente. Più precisamente, si tratta di un ritardo nell’adattamento cerebrale ai rapidi cambiamenti negli stimoli sensoriali. La scoperta è di un gruppo di neuroscienziati del MIT e Boston University che firmano un articolo su “Neuron”.

Tyler K. Perrachione e colleghi hanno voluto verificare la teoria secondo cui i problemi di lettura dei dislessici deriverebbero da una difficoltà ad associare i suoni alle parole scritte, e per questo sono partiti dall’analisi dei processi cerebrali di base che potrebbero rendere difficile quell’associazione.

I ricercatori hanno sottoposto a risonanza magnetica funzionale il cervello di un gruppo di adulti, alcuni affetti da dislessia e altri no, mentre ascoltavano delle voci. A volte la stessa voce pronunciava una serie di parole, a volte le parole erano pronunciate in serie da voci diverse.

Se si ascolta una sola voce, il cervello si abitua subito a essa e si adatta. Ma se ogni parola del discorso è pronunciata da una voce diversa, il cervello fatica ad adattarsi, come si vede nell’immagine a sinistra, e continua a lavorare intensamente per elaborare le diverse voci. Nei dislessici il livello di adattamento è scarso anche se si tratta di elaborare una sola voce (a destra). (Cortesia T.K. Perrachione et al./Neuron)

Le scansioni hanno mostrato che quando le persone senza dislessia ascoltano una sola voce, la loro attività cerebrale ha un picco di uno, o al massimo due secondi, che poi diminuisce e si stabilizza: la prima fase corrisponde alla ricerca delle costanti presenti in una voce, la seconda indica invece che sono state individuate. Se le parole sono pronunciate da persone diverse, l’adattamento è molto più faticoso.

Nei soggetti dislessici, la fase di sintonizzazione, o adattamento, a una voce, è invece molto più protratta, e lo è tanto più quanto più grave è il disturbo: il cervello del dislessico fatica ad adattarsi a una singola voce almeno quanto il cervello normale fatica a far fronte a più voci, e spesso ancora di più.
I ricercatori hanno quindi sottoposto un altro gruppo di persone a un test analogo, ma con stimoli visivi, sottoponendo delle immagini, a volte diverse e a volte ripeture, di parole scritte, volti e oggetti. Anche in questo caso, nei soggetti dislessici la fase di adattamento è stata molto più protratta.

Tuttavia, osservano i ricercatori, quando si tratta di interpretare un singolo tipo di stimolo, il cervello umano, che si è evoluto per elaborare i segnali sonori e visivi con affidabilità, può contare su un gran numero di “infrastrutture” che possono sopperire ad alcune difficoltà. “Tant’è che parlando con una persona incontrata per strada, non possiamo avere la minima idea se sia dislessico o no”, ha detto Perrachione.

Ma la lettura è un’altra storia. Si tratta di un’abilità appresa, che richiede il coordinamento di più regioni del cervello destinate a elaborare stimoli differenti. Un deficit nell’adattamento neurale che colpisce simultaneamente l’elaborazione uditiva e visiva può rendere molto difficile la lettura.
“Dobbiamo vedere le lettere, mapparle su parole, mappare le parole sui suoni, e collegarli alla semantica”, dice Perrachione. “Ci sono un sacco di punti in cui le cose possono andare storte. Così questo studio apre molte più domande delle risposte che dà.” Credit Le Scienze

La plasticità della memoria! 



Nei destrimani la corteccia motoria dedicata alla mano può regredire se non viene esercitata. La mano sinistra, invece anche se spesso passiva, con l’esercizio vede accrescere la sua plasticità L’uso della mano nell’esercizio della memoria accresce la capacità di acquisizione, un processo inconscio e procedurale che viene in soccorso alla memoria tradizionale!

Corteccia motoria. Mappa dell’area destinata alla mano. Quasi il 50% della motricità fine è dedicata all’arto superiore! Studiare con mappe, foto, disegni ecc consolida ed esercita la memoria Cinestetica! Disegnare, riprodurre e collocare nello spazio i concetti chiave, aiutandosi con le mani, espande la memoria Cinestetico – spaziale!

​Ľeffetto antidepressivo dei ricordi piacevoli  

In topi sottoposti a condizioni di stress, i comportamenti indicativi di uno stato depressivo possono essere annullati attivando in modo artificiale le popolazioni di neuroni associate a situazioni piacevoli vissute in passato. Lo dimostra uno studio che apre interessanti interrogativi sui meccanismi che negli esseri umani agiscono per compensazione di stati depressivi
    

Richiamare in memoria ricordi positivi sembra alleviare i comportamenti di tipo depressivo, almeno nei topi. Lo dimostra uno studio pubblicato su “Nature” da Steve Ramirez del Massachusetts Institute of Technology a Cambridge.
Una serie di studi effettuati in passato aveva dimostrato che l’ippocampo, nel lobo temporale del cervello, è una delle aree cerebrali maggiormente coinvolte nella formazione dei ricordi a lungo termine e nella regolazione delle risposte allo stress. L’ippocampo contribuisce infatti alla generazione di una rappresentazione cellulare delle esperienze, attivando specifiche popolazioni di neuroni.
Un grande contributo a questi studi su topi è stato dato dalle tecniche di optogenetica, che permettono di “etichettare” con molecole sensibili alla luce una specifica popolazione di cellule, che viene attivata da un’esperienza vissuta dall’animale, e che quindi è considerata il substrato neurologico dei ricordi. Questo tipo di etichettatura permette ai ricercatori di far rivivere ai roditori la stessa esperienza, riattivando intenzionalmente le stesse cellule con impulsi di luce.

Microfotografia dell’engramma positivo, etichettato nei topi coinvolti nello studio (Credit: Steve Ramirez)

Ramirez e colleghi hanno etichettato tre diverse popolazioni di neuroni del giro dentato, una sottoregione dell’ippocampo, di topi di laboratorio. Si trattava di popolazioni neuronali associate ad altrettante esperienze di diversa valenza: essere chiusi in una gabbia con una femmina (esperienza positiva), essere rinchiusi in una gabbia vuota (esperienza neutra) ed essere immobilizzati (esperienza negativa, in grado di indurre stress nell’animale).
Dopo l’etichettatura neuronale, i topi sono stati sottoposti a condizioni stressanti per dieci giorni consecutivi. Questo passaggio sperimentale ha generato nei roditori uno stato crescente di ansia, oltre che di passività e di disinteresse per attività ludiche, ovvero due sintomi di uno stato depressivo.

Questi stati d’ansia e di depressione, tuttavia, potevano essere cancellati riattivando i neuroni etichettati con l’esperienza positiva, mentre riattivando quelli collegati all’esperienza neutra e a quella negativa non si osservava alcun cambiamento. Inoltre, la riattivazione ripetuta nel tempo dei neuroni associati all’esperienza positiva aveva un effetto antidepressivo duraturo sui topi, che dimostravano di essere più resistenti allo stress. La stessa cosa non succedeva però riproponendo ai topi una nuova esperienza positiva.
Il risultato suggerisce interessanti corrispondenze con analoghi fenomeni negli esseri umani.

 Il ricordo di un’esperienza positiva in grado di cambiare l’umore di una persona ricorda molto da vicino la nostalgia, che allevia gli stati depressivi, ma solo nelle persone non colpite da una depressione di significato clinico, come sottolineano gli autori. In persone con depressione grave, infatti, il ricordo di situazioni piacevoli non è di alcun aiuto. Credit Le Scienze