Pensiero e velocità d’azione.

Secondo alcuni scienziati, l’esperienza di volontà cosciente che precede l’azione è un falso, creato dal cervello.

In genere, di qualsiasi azione ci rendiamo responsabili, abbiamo la netta convinzione di averla fatta in base alla nostra volontà cosciente. Se diamo un calcio a una palla pensiamo che il calcio l’abbia dato il nostro piede e che il calcio sia stato preceduto dalla nostra decisione di darlo. Vero? Forse no: oggi la ricerca sembra dimostrare che gran parte delle nostre azioni “ci capitano” e che l’esperienza di volontà cosciente che precede 1’azione è in realtà un falso, generato dal cervello.

La sindrome della mano aliena
Il caso più clamoroso è stato scoperto studiando una malattia chiamata “sindrome della mano estranea”. Chi soffre di questa sindrome ha 1’impressione che una delle sue mani sia mossa da una volontà estranea. Come il paziente descritto nel 1989 in un articolo su Archives of Neurology: «Mentre in un’occasione giocava a scacchi, la mano sinistra fece una mossa che lui non voleva fare. La corresse con la mano destra. Allora la mano sinistra, con grande frustrazione del paziente, ripeté la mossa sbagliata. In altre occasioni egli girava le pagine di un libro con la destra mentre la sinistra cercava di chiuderlo; si sbarbava con la destra mentre la sinistra gli apriva la lampo della giacca…».

Per un verso, quindi, la mano estranea fa cose complicate, atti classificabili come volontari. Per 1’altro il paziente, il “proprietario” della volontà cosciente, non sente queste azioni come volute, tanto da attribuirle addirittura a entità diverse. Un caso per alcuni aspetti simile è quello dell’ipnosi, durante la quale la coscienza dell’azione è presente, ma sembra mancare la volontà. Chi viene ipnotizzato afferma infatti di sentire se stesso agire, ma senza partecipazione di volontà. Basta che l’ipnotista dica: «Il tuo braccio è pesante, molto pesante, sta diventando così pesante che non puoi resistere» perché ad alcuni il braccio si sposti senza che intervenga la volontà. Ma c’è sempre l’intervento della corteccia cerebrale.

Più veloci del pensiero
È studiando questi casi che gli scienziati si sono chiesti come si poteva fare per determinare se la volontà cosciente era o meno presente durante un’azione. Nei cartoni animati è semplice. A un certo punto si accende una lampadina sulla testa del personaggio che, dopo aver guardato prima a destra, poi a sinistra, si precipita a compiere 1’azione volontaria ideata. L’uomo non ha lampadine che si accendono sopra la testa, ma i ricercatori possiedono ora gli strumenti per vedere il succedersi delle varie fasi di una azione: l’elettromiografia, che misura il movimento muscolare, e l’Eeg o elettroencefalogramma, che misura 1’attività elettrica cerebrale.

È stato usando questi strumenti nell’analisi del movimento di un dito che Benjamin Libet, celebre fisiologo dell’Ucla di Los Angeles, ha capito, 10 anni fa, che circa 535 millisecondi prima del movimento del dito il cervello inizia a fare qualcosa di cui non abbiamo alcuna coscienza; che 204 millisecondi prima che il dito si muova arriva la coscienza di voler muovere il dito; 86 millisecondi prima arriva la coscienza che il dito si muove (ma il dito è ancora fermo), e infine si muove finalmente il dito. Insomma, nel cervello il movimento di un dito viene innescato da quello che i ricercatori chiamano RP, o readiness potential (potenziale di prontezza) che si verifica 331 millisecondi prima della volontà cosciente di muoverlo. In base a questo tipo di esperimenti, i ricercatori hanno dedotto che la volontà cosciente è un evento mentale causato da eventi precedenti e che nella realtà non innesca la decisione di fare un movimento volontario, ma è solo uno degli eventi di una cascata che alla fine porta al movimento.

I processi automatici
Tutto ciò è ancora più evidente nelle risposte automatiche, come premere l’acceleratore quando il semaforo diventa verde o frenare quando un’auto ci taglia la strada. Lì la reazione automatica ha luogo in 200-300 millisecondi e addirittura il movimento si verifica prima che la coscienza abbia preso nota dello stimolo. Eppure a posteriori siamo sicuri di aver voluto frenare. Sono più veloci della volontà cosciente anche i processi diventati automatici: un dattilografo digita 120 parole al minuto, cioè due parole al secondo. Per digitare la frase “due parole al secondo” ci vogliono 2 secondi, quindi in 500 millisecondi si digita una parola.

La digitazione, insomma, procede così veloce che non c’è spazio per la volontà cosciente, tanto che quando ci si accorge di aver fatto un errore, la frase è già finita. Lo stesso si verifica quando parliamo: la scelta dei vocaboli di solito non è cosciente, e non è cosciente neppure il tiro al volo del centravanti. Insomma, la volontà cosciente è la lumaca della situazione, arriva per ultima. Ma se non è la volontà, che cosa ci fa veramente agire?

La nostra firma
Secondo alcune ricerche, a farci agire in questi casi sarebbe direttamente l’inconscio. L’influenza dell’inconscio sulle azioni è stata dimostrata chiaramente nel 1996 studiando un gruppo di studenti universitari. Bastava fare un test in cui fossero presenti vocaboli tipici dell’invecchiamento come rugoso, brizzolato, pensionato, saggio e vecchio per indurre in questi studenti baldanzosi un passo rallentato rispetto a coetanei sottoposti a un test in cui non c’erano quei vocaboli. Basterebbe quindi pensare a chi cammina lentamente per camminare lentamente. Così come basta pensare di vincere per aver maggiori probabilità di successo. «A meno che si agisca molto, molto lentamente e ci si pensi sopra così tanto da farsi venire mal di testa, si è inevitabilmente portati a fare molte cose che non sono state coscientemente valutate» dice Daniel Wegner, docente di psicologia a Harvard.

Ma se la volontà non causa l’azione, a che serve? «È un segnale che assomiglia per molti versi a un’emozione: attraversa la mente e il corpo per darci la paternità delle nostre azioni» spiega Wegner. «Serve a segnare nella memoria le azioni che abbiamo identificato in questo modo. A riconoscerle come nostre. Ci aiuta a distinguere fra le cose che stiamo facendo e tutte le altre cose che si verificano intorno. E ha una funzione chiave nel dominio della morale e del successo. La sensazione che siamo autori del nostro agire è la base su cui valutiamo se ci siamo comportati bene o male. Ci dice dove siamo e ci fa sentire l’emozione appropriata alla moralità dell’azione che stiamo facendo: colpa, fierezza e altre emozioni morali non ci attanaglierebbero tanto se non sentissimo che abbiamo voluto compiere le azioni». Credit Focus

Che cos’è l’intelligenza?

Ce n’è una soltanto o può manifestarsi in varie forme? Conta più la genetica o l’influenza dell’ambiente in cui si vive? A Focus Live, e risposte di due grandi scienziati. Alberto Oliverio, professore emerito di psicobiologia all’Università La Sapienza di Roma; Steven Pfeiffer, psicologo clinico infantile e pediatrico.

Cos’è che fa davvero la differenza tra gli esseri umani e le altre specie? Un certo tipo di intelligenza, innanzitutto, che nel nostro caso si esprime nel linguaggio e poi anche nei gesti, e nell’esistenza dei due emisferi in cui è diviso il nostro cervello, una separazione che ha permesso un migliore sviluppo delle rispettive intelligenze, quella razionale e quella invece relativa alla vita emotiva.

Parola di Alberto Oliverio, professore emerito di psicobiologia all’Università La Sapienza di Roma che, a conferma della sua tesi, aggiunge un aforisma celebre nel campo: “Del resto, se i delfini avessero una mano, probabilmente parlerebbero”.

Un immenso database a cui attingere. Insomma, l’intelligenza fa la differenza, tanto per rimanere in tema di slogan. Anzi, le intelligenze, che quando sono entrambe attive e ben coltivate, fanno sì che le nostre reti neurali diventino un deposito di informazioni a cui si può attingere per analogia e rappresentare la base per nuovi spunti intellettivi ed emotivi che acquisiscono un’importanza sempre maggiore, via via che si invecchia.

E poi ci sono le eccezioni, le intelligenze che stanno alle estremità, per esempio quelle che riguardano i giovani più dotati, il settore d’interesse dell’altro ospite protagonista della sessione di Focus Live dedicato all’argomento, Steven Pfeiffer, psicologo clinico infantile e pediatrico, specializzato, tra le altre cose, nella valutazione dei ragazzi plusdotati. Nella sua disamina, lo scienziato elenca tre classici grandi filoni di interrogativi.

I grandi quesiti.
Il primo: che cos’è l’intelligenza? Per Pfeiffer è dato «dall’insieme della capacità di ragionamento, di risolvere problemi e di apprendere. E tutto ciò, a sua volta, include anche la capacità di attenzione, la memoria, l’uso e la comprensione del linguaggio, la percezione».

Secondo interrogativo: di intelligenza ce n’è una soltanto? O possono anche essere molteplici? «Secondo Aristotele – spiega – la risposta giusta è quest’ultima, contrariamente a quanto pensava invece Darwin».
«Le ultime teorie – prosegue – parlano di due generi, ben distinti, uno riguarda l’intelligenza cristallizzata (della verbalizzazione e della comunicazione), l’altro quella fluida, che comprende il ragionamento, la memoria a breve e a lungo termine, i processi audio-visuali, la velocità nel processare le informazioni». A loro volta, le due categorie si suddividono in numerosi sottoinsiemi più specifici.

Il filo conduttore. E poi ci sono anche diverse altre visioni, per esempio la teoria dell’intelligenza multipla di Gardner o il modello trittico di Sternberg. Insomma, tante correnti di pensiero e il leitmotiv che le attraversa tutte è che non esiste un modo univoco per identificarle.

Infine la genetica: l’intelligenza è scritta nel Dna e quindi è innata o si può insegnare? «Anche qui – conclude Pfeiffer – la risposta non può essere univoca ma possiamo affermare che, tendenzialmente, il codice genetico individuale influisce in una percentuale variabile tra il 40 e il 60 per cento. E che, l’ambiente umano circostante, svolge, anch’esso un ruolo fondamentale». Credit Focus

Apprendimento ed emisferi cerebrali

Da circa centocinquanta anni la scienza sa che la funzione del linguaggio e le capacità connesse risiedono nell’emisfero sinistro nella maggior parte degli individui (cioè nel 98% circa dei destrimani e in circa i due terzi dei mancini). La scoperta che le funzioni connesse al linguaggio sono una specializzazione della metà sinistra del cervello fu dovuta soprattutto all’osservazione degli effetti provocati da lesioni cerebrali. Emerse chiaramente, per esempio, che la perdita della parola si verificava molto più frequentemente in presenza di lesioni all’emisfero sinistro, che non di lesioni di pari entità all’emisfero destro.

Poiché la capacità di parola e il linguaggio sono strettamente collegati al pensiero e al ragionamento – vale dire alle funzioni mentali superiori che distinguono l’uomo dalle altre creature sulla terra – gli scienziati del secolo scorso definirono l’emisfero cerebrale sinistro dominante o principale, e quello destro subordinato o secondario. Fino a tempi recenti si credeva che l’emisfero destro fosse meno progredito, meno evoluto del sinistro, una specie di gemello più ottuso, con capacità inferiori, diretto e guidato dall’emisfero sinistro in cui risiedono le funzioni verbali.

Ma da alcuni anni le ricerche neuroscientifiche si occupano in modo specifico delle funzioni, fino a non molto tempo fa sconosciute, di un grosso fascio di milioni di fibre nervose che collega i due emisferi cerebrali. Questo cordone è chiamato ‘corpo calloso’. Per le sue notevoli proporzioni, l’enorme numero di fibre nervose che lo compongono e per la sua posizione strategica di collegamento tra i due emisferi, il ‘corpo calloso’ dava la netta impressione di essere una struttura assai importante. Tuttavia (e qui stava l’enigma) esso poteva essere asportato senza gravi conseguenze, come l’esperienza aveva provato.

Negli anni ‘50, in seguito a una serie di studi su cervelli di animali, svolti soprattutto dal Dottor Roger Sperry, premio Nobel 1981 e dai suoi allievi Ronald Myers, Colwyn Trevarthen e altri, fu dimostrato che una delle funzioni principali del corpo calloso era di provvedere alla comunicazione tra i due emisferi, consentendo la trasmissione della memoria e dell’apprendimento. Si scoprì inoltre, che asportando questo cordone le due metà del cervello continuavano a funzionare autonomamente, il che spiegava in parte l’assenza di conseguenze evidenti sul piano del comportamento e della funzionalità in generale.

Negli anni ‘60, questo tipo di studio fu esteso a un gruppo di pazienti neurologici ed emersero altri dati sulla funzione del corpo calloso, che indussero gli studiosi a modificare le loro conclusioni sulle facoltà delle due parti del cervello. Si scoprì, infatti, che entrambi gli emisferi svolgono funzioni cognitive superiori, e che ciascuno è specializzato in diverse e assai complesse modalità di pensiero, tra loro complementari.
Dato che queste nuove acquisizioni sul cervello umano oltre ad avere importanti conseguenze nel campo della didattica e soprattutto nell’insegnamento del disegno, per cui vi parlerò brevemente di certe ricerche, note come studi sul “cervello diviso” dovuto Sperry [1] e ai suoi allievi Michael Gazzaniga, Jerre Levy, Colwyn Trevarthen, Robert Nebes e altri, sono stati portati avanti studi sul sonno e reazioni muscolari automatiche di riferimento.

Le ricerche interessarono un piccolo gruppo di individui che divennero noti come pazienti dalla commissurotomia, o dal “cervello diviso” e individui sani.
Nel caso dei primi si trattava di persone che avevano subito gravi danni cerebrali in seguito a crisi epilettiche coinvolgenti entrambi gli emisferi. Come rimedio estremo, dopo che ogni altra terapia si era dimostrata inefficace, per poter contenere l’estendersi delle crisi da un emisfero all’altro, si intervenne chirurgicamente asportando il corpo calloso e le relative commisure (o connessioni) e isolando così un emisfero dall’altro. L’intervento, eseguito dai dottori Phillip Vogel e Joseph Bogen, diede i risultati sperati: le crisi vennero controllate e i pazienti riguadagnarono la salute. Nonostante la natura radicale dell’intervento, l’aspetto, il comportamento e la capacità di coordinazione dei pazienti ne risentirono in misura minima, tanto che a un osservatore non particolarmente attento la condotta quotidiana di queste persone sembrava di poco mutata.

In seguito l’équipe svolse con questi pazienti una serie di test ingegnosi e ben studiati, che rivelarono in modo separato le funzioni ‘dei due emisferi’. I test fornirono nuove e sorprendenti prove del fatto che ciascun emisfero, in un certo senso, percepisce una propria realtà, o, per meglio dire, percepisce la realtà a suo modo. Sia negli individui con cervello intatto, sia in quelli con cervello diviso, la metà verbale del cervello – cioè la sinistra – svolge abbastanza costantemente un ruolo dominante. Con una serie di ingegnosi procedimenti il gruppo esaminò il funzionamento separato dell’emisfero destro in questi pazienti, e scoprì che anche la parte destra del cervello, quella priva di linguaggio verbale, vive delle esperienze, ha delle reazioni emotive ed elabora per conto proprio le informazioni.

Nel nostro cervello, in cui il corpo calloso è intatto, i due modi di percezione vengono fusi e conciliati grazie alla comunicazione tra i due emisferi; questo preserva il nostro senso di unità, cioè la nostra sensazione di essere un’unica persona. Oltre a studiare le esperienze mentali dei due emisferi isolati con questo intervento chirurgico, venne analizzato anche il loro diverso modo di elaborare le informazioni. I risultati indicarono che le funzioni dell’emisfero sinistro sono verbali e analitiche, mentre quelle dell’emisfero destro sono non verbali e globali. Nel corso di ulteriori ricerche, svolte da Jerre Levy, emerse che l’emisfero destro ha un modo di elaborazione rapido, complesso, sintetico, spaziale e percettivo, un modo che se da una parte è totalmente diverso da quello verbale e analitico dell’emisfero sinistro, dall’altra è paragonabile a esso per complessità.

La Levy rilevò, inoltre, che la destra insisteva nel respingere la sinistra.[2]
Grazie a questi risultati straordinari, ottenuti negli ultimi quindici anni, noi oggi sappiamo che nonostante la sensazione che comunemente si ha di essere un’unica persona – cioè un essere unitario – il nostro cervello è “doppio” e ciascuna metà ha un proprio modo di apprendimento e di percezione della realtà esterna. Ognuno di noi ha, per così dire, due menti, due coscienze, mediate e integrate dal cordone di fibre nervose che si trova tra i due emisferi. Si è potuto verificare che i due emisferi collaborano in diversi modi. A volte essi cooperano con ciascuna metà, contribuendo alle sue specifiche capacità e assumendo quella parte del compito che meglio si addice al suo modo di elaborazione delle informazioni.

A volte, invece, i due emisferi operano singolarmente, vale a dire che uno di essi è attivo e l’altro è più o meno inattivo. Sembra anche che i due emisferi possano entrare in conflitto tra loro, per cui una delle metà cerca di fare ciò che l’altra “sa” di poter fare meglio. Inoltre, è possibile ipotizzare che ciascun emisfero abbia un modo per “tenere per sé” delle informazioni, privandone l’altro emisfero. Non è escluso, quindi, che vi sia qualcosa di vero nel detto secondo cui la destra non sa ciò che fa la sinistra.[3] Quindi l’emisfero sinistro è sede dell’IO e dei processi secondari mentre l’emisfero destro è sede dell’inconscio e dei processi primari.

Rossi sottolinea che “ […] le funzioni di coscienza dell’io e le prese di posizione consapevoli sono, in massima parte, funzioni dell’emisfero sinistro”[4] e Watzlawick riconosce che da un punto di vista psicanalitico questa funzione coincide ampiamente con la definizione dei processi secondari[5].” Rossi evidenzia l’occasionalità della dominanza come conseguenza della situazione: “La dominanza emisferica… ha un importante significato funzionale. Permette che l’emisfero che ha la superiorità nella risoluzione di un determinato problema inibisca simultaneamente l’altro emisfero in modo che non si abbiano a verificare interferenze».

Levi-Agresti e Sperry dimostrano che l’emisfero destro è cc… specializzato per le funzioni gestaltiche, nella sua primaria funzione di sintesi dei dati in entrata[6]». Specializzazione essenziale in quanto, come precisa Nebes, è capace di generare da uno stimolo parziale e frammentario un giudizio conclusivo globale[7]».

Un’importante osservazione effettuata da Jovanovic su soggetti destrimani durante il sonno rivelò che i movimenti della mano sinistra durante le fasi REM erano più frequenti di quelli della destra: «Nel sogno costoro sono mancini. I veri mancini nel sogno diventano destri». Inoltre pazienti commissurotomizzati riferirono a Bogen che non sognavano più.

[1] SPERRY, R. W. (1966) Brain bisection and consciousness, in Brain and conscious experience, a cura di J. – C. Eccles, New York; SPERRY, R. W., (1968) Hemisphere Disconnection and Unity in Conscious Awareness in American Psychologist 23 pp. 723-33; SPERRY, R. W., Lateral Specialization of Cerebral Function (1973) in the Surgically Separated Hemispheres, in The Psychophysiology olThinking, a cura di F. I. MCGUIGAN e R. A. SCHOONOVER, Academic Press, New York, , pp. 209-29; R. W. SPERRY, M. S. GAZZANIGA e J. F. BOGEN, (1969) Interhemispheric Relationships: the Neocortical Commissures; Syndromes of Hemisphere Disconnection, in Handbook of Clinical Neurology, a cura di P. J. VINKEN e G. W. BRUYN, North-Holland Publishing Co. Amsterdam, pp. 273-89; cfr. LOMBARDO, S. (1980), Il sogno. Una funzione biologica indicibile, Rivista di Psicologia dell’Arte, Anno II, n.2 1980.

[2] Alla fine, il paziente dovette sedersi sulla mano sinistra per impedirle di entrare in azione. Quando infine il ricercatore suggerì al paziente di usare entrambe le mani, la mano sinistra, “esperta” in problemi spaziali, dovette fisicamente allontanare la “incompetente” mano destra per impedirle di interferire. E furono commentate da una paziente con l’espressione:” Ora so: non sono stata io a farlo”.(SPERRY, 1966)

[3] EDWARDS, BETTY, (1979), Disegnare con la parte destra del cervello, ed. Longanesi, Milano, 2001

[4] ROSSI, E. Gli emisferi cerebrali e la psicologia analitica,

[5] WATZLAWICK, P. (1980) Il linguaggio del cambiamento, Feltrinelli, Milano, 1980

[6] LEVY – AGRESTI, e SPERRY, R.W. (1971), Differential capacities in major and minor hemispheres, in Procedings National Academy of Sciences of the U.S., 61, p. 1151

[7] NEBES, R.D. (1971) Superiority of the minor emisphere in commisurotomized man for the perception of part-whole relationships in Cortex.

La scimmia che parla (quasi) come un uomo

Scoperta in un cercopiteco africano una delle sintassi primitive più complesse mai rinvenute in un essere “non-umano”. Il suo modo di comunicare potrebbe gettare nuova luce sull’origine del nostro linguaggio.

Le nostre strade si sono divise, nel corso dell’evoluzione, circa 30 milioni di anni fa. Da allora tra uomo e cercopiteco di Campbell (Cercopithecus campbelli campbelli), una scimmietta arboricola dell’Africa Occidentale, vige l’incomprensione più totale. Noi rinchiusi nelle rigide leggi della sintassi umana, loro, i primati, in indecifrabili vocalizzi scimmieschi. Ma forse le cose stanno cambiando: un team internazionale di scienziati è infatti recentemente riuscito a “tradurre” alcuni dei versi di questi nostri lontani “cugini”. Scoprendo uno dei più complessi esempi di linguaggio non umano mai conosciuti finora.

Scimmia-sentinella. Per due anni un’equipe di ricercatori delle università di Rennes (Francia), St Andrews (Scozia) e Cocody-Abidjan (Costa d’Avorio), ha studiato il comportamento di 6 diversi gruppi di cercopitechi di Campbell del parco nazionale di Taï, Costa d’Avorio. Queste scimmie vivono in gruppetti di una decina di esemplari, capitanati da un maschio alfa che ha il compito di allertare i compagni in caso di pericolo. In particolare gli etologi hanno identificato tre grida di allarme, che suonano più o meno così.

Boom!” è il verso più ripetuto per avvertire il gruppo dell’imminente caduta di un ramo, o per comunicare alle altre scimmie la necessità di “traslocare” in un’altra area della foresta.

Krak!” è un grido d’allarme ben preciso: attenzione, leopardo in vista!

Hok!” usato quasi esclusivamente quando a minacciare le scimmiette, è uno dei più temibili rapaci della zona, l’aquila coronata (Stephanoaetus coronatus).

Un suffisso, mille parole. Ma i discorsi dei cercopitechi non si limitano a queste 3 semplici espressioni. Ulteriori analisi hanno mostrato come questi primati sappiano moltiplicare la loro gamma di vocalizzi diversi semplicemente “attaccando” ai versi più comuni, una piccola sillaba, il suffisso “-oo”. Un trucchetto, questo, a cui noi umani ricorriamo tutti i giorni: basta per esempio, attaccare all’aggettivo “comune” il suffisso “-mente” per formare una nuova parola, l’avverbio “comunemente”.

Così “krak” con l’aggiunta del suffisso “-oo”, si trasforma in un grido d’allarme generico, non necessariamente riferito a un leopardo, mentre “hok-oo” significa “Occhio! C’è qualcosa tra gli alberi” non importa se un uccello o una scimmia di un gruppo rivale.

Sempre più difficile! E non è finita. In una seconda ricerca gli scienziati si sono concentrati su come queste scimmie combinano i suoni per comunicare tra loro. Scoprendo che raramente i cercopitechi emettono versi isolati, anzi. Possono elaborare anche una “frase” di 25 distinti vocalizzi, combinati di volta in volta in modo diverso per fornire informazioni circa la natura del pericolo (un albero che cade, un predatore), il tipo di predatore e come è stato localizzato (l’ho visto, l’ho sentito) e infine, su come evitarlo (magari, fuggendo).

Non ti vedo ma ti sento. La complessità di questa sintassi potrebbe essere spiegata con la necessità di compensare con la varietà di vocalizzi, la gamma ristretta delle inflessioni vocali dei cercopitechi (rispetto ad esempio, alle diverse note che può emettere un uccellino). O ancora, come risposta a un problema di “visibilità”. A causa della fitta vegetazione africana infatti, queste scimmie sono spesso costrette a comunicare tra loro senza vedersi: da qui l’utilità di un vocabolario tanto vasto.

Alle radici della parola. Un simile studio era stato condotto su un’altra specie di cercopiteco, quello dal naso bianco (Cercopithecus nictitans), nel marzo 2008. Se provata anche su altre specie di primati, la nuova scoperta – pubblicata sul sito di Proceedings of the National Academy of Sciences – potrebbe fornire indizi preziosi sull’origine del nostro linguaggio. Si pensa infatti che l’uomo e il cercopiteco di Campbell si siano separati da un comune antenato circa 30 milioni di anni fa. Alcuni primitivi tratti linguistici a quanto pare, sembrerebbero accomunarli ancora oggi. Credit Focus

Circuiti cerebrali antichissimi per imparare una lingua

Due circuiti cerebrali che giocano un ruolo centrale nell’apprendimento del linguaggio sono presenti anche in altri animali e si sono evoluti prima della comparsa degli esseri umani. Il risultato emerge da una meta-analisi di 16 studi sull’apprendimento della lingua nei bambini e negli adulti, secondo cui i due sistemi individuati – la memoria dichiarativa e la memoria procedurale – si sarebbero poi specializzati nella nostra specie.

L’apprendimento del linguaggio è gestito da circuiti cerebrali evolutivamente antichi, precedenti alla comparsa dell’essere umano, e non da circuiti sviluppatisi specificamente nella nostra specie. E’ questa la conclusione a cui è giunto un gruppo di ricercatori diretto da Michael T. Ullman della Georgetown University School of Medicine in seguito a uno studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

“Questi sistemi cerebrali si trovano anche negli animali – per esempio, i ratti li usano quando imparano a spostarsi in un labirinto”, osserva Phillip Hamrick, coautore dello studio. “Indipendentemente dai cambiamenti che questi sistemi potrebbero aver subito per supportare il linguaggio, il fatto che abbiano un ruolo centrale in questa capacità umana è notevole”

La memoria dichiarativa (quella che usiamo per memorizzare la lista della spesa o ricordare che cosa abbiamo mangiato ieri) è strettamente correlata alla ricchezza del vocabolario padroneggiato. La memoria procedurale (quella che usiamo per imparare compiti come guidare, andare in bicicletta o suonare uno strumento) è responsabile della capacità di gestire le regole sintattiche della lingua.

La distinzione fra i compiti dei due tipi di memoria è molto netta nei bambini, mentre è più sfumata negli adulti quando imparano una nuova lingua; in questo caso infatti anche l’apprendimento dei costrutti sintattici e grammaticali è mediato, almeno all’inizio, dalla memoria dichiarativa,
che lascia spazio a quella procedurale solo in un secondo momento. Forse anche per questo è difficile padroneggiare una lingua imparata più avanti negli anni altrettanto bene della madrelingua.

La scoperta – osservano i ricercatori – può aiutare a comprendere meglio le basi genetiche e biologiche dell’apprendimento del linguaggi: anche se finora sappiano molto poco su quali sono i geni alla base del linguaggio, le ricerche sulla genetica del cervello in generale hanno identificato numerosi geni che hanno ruoli particolari per il funzionamento della memoria dichiarativa e procedurale, e questo li pone come primi candidati per le future ricerche.

Inoltre, i risultati possono portare migliorare gli approcci all’apprendimento delle lingue straniere e alla terapia di diversi disturbi del linguaggio. Credit Le Scienze

Un nuovo meccanismo di formazione della memoria




Ricordare sequenze di eventi rafforza la memoria e la collocazione spazio temporale! Ripercorrere pagine di un libro specifica il prima e il poi dei contenuti! La formazione di ricordi avviene quando più neuroni fra loro connessi sono attivati contemporaneamente o nell’arco di brevissimo tempo. Ora è stato scoperto un nuovo meccanismo che permette la memorizzazione di stimoli che si sviluppano in tempi più lunghi, probabilmente utile per ricordare sequenze di eventi.


Un nuovo meccanismo neurale per la memorizzazione dei ricordi è stato scoperto da ricercatori dello Howard Hughes Medical Institute ad Ashburn, in Virginia, che lo descrivono in un articolo pubblicato su “Science”. Secondo gli autori, questo meccanismo sarebbe destinato a ricordare non tanto singoli eventi, quanto sequenze di eventi.


Numerosi studi hanno dimostrato che i ricordi sono formati e memorizzati attraverso il rafforzamento delle connessioni (sinapsi) fra neuroni; questo rafforzamento si verifica quando, durante un certo evento, due neuroni collegati fra di loro vengono entrambi attivati in un arco di tempo ristretto. In questo modo si forma una memoria di quell’evento.


D’altra parte le connessioni neurali devono avere una certa plasticità, permettendo il rafforzamento o l’indebolimento di una connessione (ricordo) in funzione delle situazioni mutevoli: se una volta ci hanno servito un caffè imbevibile, il suo ricordo può (ed è un bene) svanire, altrimenti non avvicineremmo più le labbra a una tazzina. Non a caso questo meccanismo plastico è minato in chi soffre di disturbo post-traumatico da stress.


Altri studi hanno mostrato che la trasmissione dei segnali tra due neuroni migliora notevolmente – e quindi rafforza le sinapsi e consolida la memoria – quando i neuroni coinvolti sono sottoposti ripetutamente a stimolazioni brevi, che si sviluppano nell’arco di poche centinaia di millisecondi, un fenomeno noto come potenziamento a lungo termine.


Ora, con esperimenti sui topi, Katie Bittner e colleghi hanno individuato un altro meccanismo di apprendimento basato sulla plasticità, che hanno chiamato behavioral time scale synaptic plasticity (BTSP);


in questo meccanismo lo stimolo di attivazione inviato da un neurone a un altro si sviluppa su un lasso di tempo considerevolmente più lungo, dell’ordine dei secondi.


Secondo gli autori questa scala temporale più lunga consente di memorizzare un’intera sequenza di eventi – per esempio la successione dei luoghi attraversati da un topo che percorre un labirinto – e porta a un potenziamento della memoria della strada per giungere in posti importanti, come quelli in cui c’è cibo. Credit Le Scienze

Perché il cervello umano è diverso da quello degli scimpanzé

Sarebbe la maggiore espressione di alcuni geni in specifiche aree cerebrali – come la neocorteccia, responsabile delle funzioni cognitive superiori – a fare la differenza tra il nostro cervello e quello degli scimpanzé. Lo dimostra una nuova ricerca che ha confrontato i tessuti cerebrali di diverse specie di primati

Il cervello umano non è semplicemente una versione ingrandita del cervello dei nostri antichi antenati. Secondo un nuovo studio pubblicato su “Science” da un gruppo di ricercatori della Yale University, l’approfondita analisi dei tessuti cerebrali di diverse specie di primati mostra differenze sostanziali, oltre che sorprendenti, nell’espressione di alcuni geni.

“Il nostro cervello è tre volte più grande di quello degli scimpanzé o delle scimmie, ha molte più cellule, e quindi ha una potenza di calcolo molto superiore”, ha spiegato Andre M.M. Sousa, coautore dello studio. “Tuttavia, si possono osservare alcune peculiarità nel modo in cui le singole cellule funzionano e si connettono tra loro”.

Sousa e colleghi hanno studiato campioni di tessuto cerebrale di sei esseri umani, cinque scimpanzé e cinque macachi, ricavando il profilo di trascrizione dei geni in 247 campioni complessivi, rappresentativi di diverse regioni cerebrali tra cui l’ippocampo, l’amigdala, lo striato, il nucleo medio-dorsale nel talamo, la corteccia cerebellare e la neocorteccia.
Complessivamente, l’espressione dei geni negli esseri umani è molto simile a quella delle scimmie in tutte le regioni cerebrali, anche nella corteccia prefrontale, o neocorteccia, sede delle funzioni cognitive che più ci distinguono dagli altri primati.

A un’analisi più sottile e approfondita, tuttavia, si evidenziano alcune differenze. Due geni in particolare sono fortemente espressi nella neocorteccia e nello striato umani molto di più che nella neocorteccia degli scimpanzé.
Si tratta dei geni TH e DDC, che codificano per due enzimi coinvolti nella produzione di dopamina, un neurotrasmettitore cruciale per le funzioni di ordine superiore,
come la memoria di lavoro, il ragionamento, il comportamento esplorativo e l’intelligenza complessiva, la cui produzione, tra l’altro, è alterata nei soggetti affetti dalla malattia di Parkinson.

Queste specifiche differenze nelle espressioni geniche secondo i ricercatori hanno una notevole influenza sul funzionamento delle cellule cerebrali e sui loro meccanismi di differenziazione e di migrazione.
Dato però che nei primati non umani questi geni non sono assenti ma solo meno espressi, secondo Sousa “è molto probabile che l’espressione di questi geni nella neocorteccia andò perduta in un nostro antenato comune ed è poi riapparsa nel ramo filogenetico degli esseri umani”.

Altre differenze distintive sono state riscontrate all’interno del cervelletto, il che è sorprendente, dato che si tratta di una delle regioni cerebrali evolutivamente più antiche. In particolare esiste un gene, chiamato ZP2, che è attivo solo negli esseri umani. Anche questo dato è sorprendente dato che si tratta di un gene correlato alla selezione degli spermatozoi da parte degli ovociti umani.

Infine, gli autori hanno riscontrato una notevole differenza nell’espressione del gene MET, correlato allo sviluppo di disturbi dello spettro autistico, nella corteccia prefrontale degli esseri umani rispetto ad altri primati considerati. Credit Le Scienze

Emozioni! 


Il cervello elabora le risposte emotive in 12 millesimi di secondo; quelle razionali in un tempo doppio. Per questo le emozioni ci mettono nei guai.



Stava uscendo dalla chiesa addobbata di fiori; al braccio la donna appena sposata dopo un lungo corteggiamento. Le campane suonavano a festa, intorno c’erano parenti e amici; Gunny, americano cinquantenne, rideva spensierato. Poi lo scoppio, per il ritorno di fiamma di un’auto. Nonostante non indossasse la tuta mimetica ma 1’abito scuro, e benché non fosse nell’umida foresta asiatica, Gunny si sentì afferrare dal terrore: e, come aveva fatto 35 anni prima in caso di imboscate dei Vietcong, sentendo nelle orecchie il rumore delle armi si buttò in una siepe. Giusto in tempo per capire che quella paura non era più attuale. Eppure l’emozione era stata tanto forte da farlo agire d’istinto, inconsciamente, senza pensare.

Automatismi – Le emozioni d’altronde scavalcano quasi sempre il cervello razionale. Lo invadono di sentimenti forti, danno determinazione e impulsività ai nostri pensieri, li agitano e li forzano. A chi non è capitato di fare un balzo di spavento per uno scherzo stupido, o di fare una scenata eccessiva a un parente perché era “di cattivo umore”? È in momenti come questi che le emozioni diventano incontrollabili. Come mai?

Studiando il percorso delle informazioni dall’orecchio all’amigdala, Joseph LeDoux, neuroscienziato di New York, ha scoperto una scorciatoia delle emozioni, ereditata direttamente dai primi animali privi di corteccia (il luogo del pensiero razionale) e particolarmente utile alla sopravvivenza. Il rumore dello scoppio entrato nell’orecchio di Gunny era andato al talamo, ma da qui una parte dell’informazione era passata direttamente all’amigdala, una parte del cervello più antica, dove quel rumore era indissolubilmente legato alle emozioni vissute, agli scoppi, alle carneficine del Vietnam, tanto da far scattare immediatamente una reazione di difesa. Secondo i calcoli di LeDoux, per questa via il messaggio estremamente semplificato (grosso modo “scoppio=sparo=morte”) ci mette 12 millesimi di secondo a innescare la risposta di fuga. La metà del tempo necessario per il percorso completo, che passa per la corteccia e aggiunge le informazioni della ragione, del tipo “Non si vedono Vietcong, e neppure fucili”, che richiedono 24 mll secondi per essere elaborate. E Gunny nel frattempo è già nel cespuglio. Credit Focus

I confini delle parole 

Secondo Antonio Damasio, il luminare delle Neuroscienze, le parole si trovano in precise zone del cervello! 
a) nomi propri
b) nomi di animali
c) nomi di oggetti inanimati
d) le 3 aree messe insieme 

Il tutto confinato nell’emisfero sinistro per il 95% delle persone! 

La moglie Hanna Damasio così le descrive ~ Esistono dei precisi confini cerebrali per individuare sostantivi e nomi da assegnare all’esistente. I concetti non sono rappresentati in un unico centro, bensì in maniera frammentaria, in zone ben distinte della corteccia perisilviana sensoriale e motoria.
 Nel processo di acquisizione del significato, le parole, specie quelle ad alto valore semantico, vengono presentate contemporaneamente agli stimoli corrispondenti (visivi, olfattivi, tattili, ecc.), con il risultato di attivare aggregati neuronali localizzati in aree sensoriali specifiche. Ne deriva che la rappresentazione finale di una parola è composta fisicamente di aggregati neuronali diversi, corrispondenti alle diverse modalità di presentazione degli stimoli associati a quella parola. 
L’unione dei singoli elementi dell’insieme, necessaria per acquisire il significato completo della parola (il concetto), avviene attraverso un processo di attivazione di zone di convergenza, organizzate gerarchicamente. Tali zone, corrispondenti a campi specifici di conoscenza, sono, secondo Damasio, anatomicamente distinte e, per quanto riguarda i nomi concreti, localizzate nelle aree perisilviane temporali di sinistra: la punta del lobo temporale per i nomi propri (non tutti i casi di deficit specifici per i nomi propri, tuttavia, presentano una lesione centrata su tale zona), la regione temporale inferiore per i nomi di animali e, infine, la regione temporale infero-posteriore per i nomi di oggetti inanimati (fig a b c d li rappresenta uniti)

Il freno cerebrale che blocca i pensieri sgraditi


E’ stato identificato il neurotrasmettitore chiave che all’interno dell’ippocampo – l’area del cervello che controlla la memoria – permette di sopprimere i pensieri indesiderati. Difetti nella sintesi o nel rilascio di quel neurotrasmettitore, il GABA, spiegano i pensieri intrusivi che caratterizzano il disturbo da stress post-traumatico, l’ansia, la depressione e la schizofrenia.



Il meccanismo sottostante all’incapacità di scacciare i pensieri intrusivi e sgraditi – un tratto caratteristico di diversi disturbo psichiatrici, dal disturbo da stress post-traumatico (PTSD), all’ansia, fino alla depressione e la schizofrenia – è stato individuato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge, che firmano un articolo su “Nature Communications”.
Studi precedenti avevano mostrato che la difficoltà ad arginare i pensieri indesiderati è connessa a una ridotta attività nella corteccia prefrontale, già nota per avere un ruolo primario nel controllo delle azioni: “Noi possiamo avere reazioni veloci, che sono spesso utili, ma a volte abbiamo bisogno di controllarle e impedire che si verifichino. Un meccanismo simile ci deve aiutare a evitare che si presentino pensieri indesiderati”, spiega Michael C. Anderson, coautore dello studio.

Ma la corteccia prefrontale è solo un tassello del problema: in tutti i disturbi caratterizzati da pensieri intrusivi si osserva infatti anche un’iperattività dell’ippocampo, l’area cerebrale responsabile del controllo della memoria.

Nel nuovo studio Anderson e colleghi hanno sottoposto un gruppo di pazienti con pensieri intrusivi e un gruppo di controllo a un test che richiedeva di rifuggire da alcune idee per concentrarsi su altre, mentre i soggetti venivano sottoposti sia a risonanza magnetica funzionale (fMRI), sia a la spettroscopia di risonanza magnetica (spettroscopia NMR). (Mentre la fMRI permette di identificare i livelli di attività delle diverse aree cerebrali, la spettroscopia NMR permette di risalire al tipo di molecole coinvolte in questa attività.)

Dal confronto dei dati raccolti è emerso che la capacità di inibire pensieri indesiderati si basa su un neurotrasmettitore
– una sostanza chimica all’interno del cervello che permette la trasmissione di messaggi da un neurone all’altro – chiamato GABA (acido gamma-amminobutirrico).

Il GABA è il principale neurotrasmettitore “inibitorio”: il suo rilascio da parte di un neurone sopprime l’attività nelle altre cellule a cui è connesso. In particolare, è risultato che basse concentrazioni di GABA all’interno dell’ippocampo rendono difficile bloccare il recupero di ricordi e pensieri.

In prospettiva, la scoperta potrebbe offrire un nuovo approccio per arginare i pensieri intrusivi in varie patologie, sviluppando farmaci in grado di migliorare selettivamente l’attività GABA all’interno dell’ippocampo.

Secondo i ricercatori, il loro studio può spiegare anche i fenomeni allucinatori nella schizofrenia. Studi post mortem hanno infatti mostrato che nei pazienti schizofrenici i neuroni inibitori (che usano GABA) nell’ippocampo sono compromessi, rendendo più difficile per la corteccia prefrontale di regolare l’attività di questa struttura. E’ quindi verosimile che l’ippocampo non riesca a bloccare pensieri e ricordi erratici, che possono così manifestarsi come allucinazioni. Credit Le Scienze